Le comunità di base sono più di centomila in Brasile: ogni loro membro si impegna, secondo le proprie possibilità, nei diversi servizi, che vanno dalla celebrazione della Parola alla preghiera, alla catechesi, all’assistenza ai poveri, all’animazione dei gruppi di riflessione.
Questi gruppi sono il luogo dove io vivo le mie esperienze più significative.
Questo pomeriggio, dopo il lavoro, vado al barrio Altoé, nella periferia. Il barrio è una piccola favela della cittadina di Nova Venécia, nell’interno dello Stato dello Spirito Santo. Entro in una casa dove c’è gente che aspetta. La lampada a petrolio fa molto fumo e i miei occhi incominciano ad irritarsi, mi costa resistere. Il coordinatore prende la parola: “A noi poveri il Signore ha dato la missione di annunciare la buona notizia e di testimoniare a tutti la nostra fede”.
Ripete la frase due volte con forza e si dimostra contento di aver intuito questa realtà. Mi sento come fuori posto. Non faccio parte di questo barrio situato su una collina, dove le famiglie vivono nella miseria: gente senza niente che vive di niente. Quasi tutti vivono in case molto povere, non c’è luce elettrica, né un pozzo per l’acqua. Se gli uomini lavorano, si può mangiare qualcosa; altrimenti si è condannati alla fame.
All’imbrunire lascio il quartiere e, andando verso casa mia, incontro la fila degli uomini che al termine del lavoro tornano. Sono stanchi, ma vanno a piedi per risparmiare i soldi dell’autobus. So cosa vuol dire scendere e salire dal quartiere, respirando continuamente la polvere rossa della strada. La chiamano per scherzo “la vitamina dei poveri”, ma è qualcosa che avvolge e penetra da tutte le parti.
Anche le donne soffrono molto. Ieri mi ha detto Antonia: “Non so più cosa fare per andare avanti. Sono stanca; l’unica cosa che mi resta è la forza di confidare in Dio”. Molte donne sono lavandaie e tutto quello che guadagnano basta appena per pagare il percorso che fanno. Le vedo esaurite, ma continuano ad andare avanti perché non possono permettersi il lusso di fermarsi nemmeno per pen-sare. Neanche si chiedono se è giusto vivere così.
Non è facile parlare insieme, aiutarli a riflettere, a reclamare i propri diritti. Ho l’impressione che si sentano l’ultima ruota del carro, senza la minima importanza.
La chiesa brasiliana sta dimostrando al mondo che i più poveri, crescendo nella fede, sentono anche l’esigenza di prendere coscienza delle proprie realtà: precisamente attraverso la fede e la speranza in Dio il quotidiano si illumina, il futuro non spaventa e nasce in molti la convinzione che bisogna iniziare a riflettere con la propria testa per non essere continuamente schiacciati. Uomini e donne accettano di interrompere il lavoro per tre o quattro giorni, varie volte all’anno, per approfondire la propria formazione spirituale e aiutare la comunità a riflettere. Quando si sceglie di difendere gli ultimi, si deve essere coscienti che soffrire e dare la vita diventa normale.
La loro dimensione del tempo
Vivo con altre due missionarie. Tutte tre, quasi subito dopo il nostro arrivo, cominciamo ad avere il problema di ottenere il permesso permanente di residenza. Il governo continua a negarcelo. Vivremo giorni, mesi e anni in una situazione provvisoria e questo creerà tensioni. La polizia federale ci chiede documenti sempre più difficili da ottenere e il motivo è chiaro: i missionari stranieri stanno aiutando il popolo a scuotersi dalle situazioni di oppressione… Per questo non è facile vivere un rapporto profondo con la gente.
Nonostante questo, ci dedichiamo con un ritmo molto intenso a tutte le attività: catechesi, riunioni di gruppo e di comunità. So che noi non possiamo risparmiarci perché c’è bisogno di stimolare tutti ad impegnarsi personalmente e a camminare da soli. Ma che significa questo? In primo luogo aiutarli a vivere la speranza, avendo la certezza che Dio cammina con noi. Ma forse significa anche rispettare i loro tempi. E mi domando quali siano i loro tempi… Mi pare che noi missionari andiamo troppo in fretta, vogliamo far maturare le persone come matura la frutta. Avverto che, per loro, il tempo ha una dimensione diversa dalla nostra. Loro sono pazienti in tutto; danno l’impressione di un’apparente inerzia e di un certo fatalismo: “Se Dio vuole…”.
Ma come faccio io a giudicare se la loro pazienza infinita è meno evangelica della mia? Credo sinceramente che non bastino pochi anni per poter stabilire un rapporto di amicizia, per riuscire a conoscere e a condividere i loro problemi, inculturarsi… Quando credo di aver fatto passi da gigante, mi ritrovo più lontana. Mi rendo conto ogni giorno di più, come sia difficile stare al loro fianco ed entrare nella loro vita. Tuttavia, che bello sarebbe incontrare Cristo come lo incontrano loro e poi percorrere insieme il cammino della libertà!
Dentro di me porto tutto questo come qualcosa di prezioso da offrire ogni giorno a Dio. Sto in ginocchio davanti al tabernacolo, adoro Cristo che si incarna incessantemente in coloro che vivono più in là delle pareti che mi circondano, nei più poveri, negli ultimi, in coloro che non hanno voce, che non hanno la possibilità di decidere di se stessi.
Adoro e presento le difficoltà della gente, e anche le mie, che sono tante e mi interpellano continuamente. Cristo è colui che mi spinge a dare tutta la mia vita per il Regno. Sento che è duro morire per aiutare il popolo a nascere ad una vita nuova. Cerco di reagire e di difendermi: molte volte non mi è facile accettare i poveri e ho la tentazione di tirarmi indietro. Mi sembra però che essi esercitino una forza speciale, non mi lascino in pace, reclamino da me scelte più radicali, mi spoglino di tutto per aiutarmi ad essere di tutti. Così vivo la mia preghiera, di cui sento una necessità estrema. Devo dire che essere missionaria consacrata mi dà una forza grande e molto coraggio. Ciò che importa è andare sempre avanti, anche quando sembra impossibile, senza risparmiarsi mai.
La vita è dura
La vita missionaria mi entusiasma ogni giorno di più. Sono contenta anche quando arriva il momento di andare al nord, nel Mato Grosso. Faccio il viaggio insieme con alcune missionarie, in autobus per 84 ore. La mia nuova comunità si trova in mezzo alla foresta, a circa 300 km dalla capitale e c’è una sola strada, non asfaltata. Siamo a Indiavai, nella diocesi di Caceres. La vita si annuncia dura e sempre uguale: il ritmo monotono e il caldo intenso non mi aiutano a sentirmi attiva; devo sempre cercare di reagire con forza.
Ma essere qui è già un motivo di gioia, anche se devo incominciare un lavoro faticoso che richiede una pazienza infinita, perché nella nostra zona le comunità ecclesiali hanno cominciato il cammino da pochissimo tempo.
Non è facile la situazione nel Mato Grosso. I problemi sono soprattutto due: l’assistenza sanitaria e la terra. L’ospedale più vicino è a 40 km e non abbiamo il medico. La nostra parrocchia è circondata da grandi estensioni di terra (fazendas): famiglie molto ricche con un’infinità di terra. Questi proprietari vivono a S. Paolo o a Rio de Janeiro; non si interessano dei contadini; raggiungono la fazenda con il loro aereo personale; controllano gli affari e se ne vanno di nuovo senza preoccuparsi d’altro.
Nonostante l’abbondanza di terre, non esiste la possibilità di lavoro stabile per i contadini, perché i proprietari preferiscono ingrandire gli allevamenti di bestiame.
Mi dice un giovane: “Devo andare per forza in città. Se avessi un pezzo di terra sarebbe diverso, potrei restare nel mio ambiente e vivere”. È scontento e noto che freme mentre guarda con me le grandi estensioni di terra che stanno davanti ai nostri occhi. E non c’è terra da coltivare! Spontaneamente mi viene da dire: “Signore, perché questo? Tu non hai dato la terra per tutti?”.
Noi, i poveri
Vedo chiaramente che sono le donne a pagare il prezzo più alto. Sono schiave di tutto e di tutti, soprattutto del marito, all’interno della loro casa.
La maggior parte di loro non sa leggere né scrivere; hanno parecchi figli e sono molto deboli perché si nutrono solo con un po’ di riso e pochi fagioli.
A Indiavai quasi tutti gli uomini lavorano fuori e per di più molto lontano. Qualcuno ritorna una volta alla settimana e qualcuno una volta ogni uno o due mesi. Abbattono gli alberi nella foresta, lavoro pericoloso e duro. Molti giovani decidono di frequentare la scuola serale. Si alzano al mattino presto per andare a lavorare nei campi e ritornano al pomeriggio, con il tempo contato per mangiare qualcosa in fretta e andare a scuola, alle 23, quando tutto è terminato; non hanno tempo di pensare né di fare altro. I professori, la maggioranza emigrati al nord per non avere trovato lavoro al sud, non si rendono conto di questa situazione. Una professoressa, moglie di un fazendeiro, ha la sfrontatezza di dire apertamente ai giovani che le loro teste servono solo a produrre pidocchi. A metà dell’anno scolastico, vinti dallo scoraggiamento, il 50% dei giovani lasciano la scuola.
Li porto con me
Non è facile entrare nelle fazendas per fare un lavoro di coscientizzazione. I proprietari, quasi tutti massoni, hanno dichiarato apertamente guerra alla chiesa.
Nelle fazendas vivono famiglie completamente isolate dalla comunità e trovano difficile partecipare agli incontri e ai momenti di preghiera, anche la domenica. Per il padrone ciò che importa è che lavorino e non creino problemi. E le famiglie diventano apatiche, incapaci di reagire, fatte di persone che sembrano vivere in libertà condizionata. Si assicurano la pace solamente dicendo sempre sì a qualsiasi richiesta e in qualunque momento.
Oggi è un giorno importante per Indiavai poiché si aspetta il governatore e tutto il gruppo delle autorità. Si stanno avvicinando le elezioni e i partiti si danno da fare per vendere i loro programmi, cioè le loro grandi e assurde promesse. Anch’io sono qui e aspetto sulla strada con i miei alunni. Ascolto il discorso del governatore: le sue promesse superano le nostre aspettative: strada asfaltata, ponti nuovi, luce elettrica, piste di atterraggio per aerei privati, centro sanitario…
Mi viene voglia di ridere quando la gente applaude. Non si rendono conto che avrebbero bisogno di case dignitose, ospedali, acqua potabile. A cosa serve una pista di atterraggio per chi non ha neanche una bicicletta? Torno a casa delusa. Che cosa si deve fare per aiutarli a riflettere e a maturare?
Nonostante ciò, sappiamo bene che quello che importa non è sostituirci a loro. Sono loro che devono prendere coscienza di essere, da generazioni, “vittime” di sfruttamento e di oppressione, accorgersi che, agli occhi dei “grandi”, non valgono nulla. Che pena mi fanno i loro volti tristi!
Mi costa molto lasciare il Mato Grosso dopo cinque anni di missione, però questa è la nostra vita. Ci sono altri che ci aspettano…
Lucia Milani