«Una forte chiamata a cercare di rispondere alle tante ingiustizie di questo mondo ha un po’ contraddistinto i miei anni vissuti. Ringrazio tutte le persone incontrate nella vita perché, adesso, mi appare evidente che ogni incontro è un dono» (Silvia De Munari)

 

Silvia De Munari (37 anni), originaria della provincia di Vicenza, da una decina d’anni è volontaria dell’Operazione Colomba, nella Comunità di Pace di San José de Apartadò, in Colombia. La comunità (circa 500 persone), nata nel 1997, vive un’esperienza unica di resistenza e di lotta nonviolenta rifiutando l’uso delle armi, in un contesto di conflitto che insanguina il Paese da decenni. Un’esperienza di pace volta a costruire relazioni positive portando avanti una forma di economia alternativa (proprietà collettiva e lavoro comunitario).

Cogliamo alcuni spunti dalla testimonianza di Silvia intervenuta in un recente incontro online del Centro Missionario diocesano di Padova (“Lunedì della Missione”).

«Sono entrata nell’Operazione Colomba nel 2013. Mi sento un po’ figlia degli obiettori di coscienza e grazie a loro ho potuto accedere al servizio civile internazionale partendo per il Cile, dove ho vissuto un anno di servizio. È lì che mi è nata dentro questa passione, trasformatasi poi in lotta personale e insieme con altre persone: del cercare di intraprendere ogni giorno il cammino della nonviolenza.

Vengo da una città come Vicenza, che mi ha visto scendere in piazza per manifestare contro la costruzione di nuove basi militari; forse anche questo attivismo vissuto da giovane mi ha smosso dentro qualcosa. Attualmente sono in Colombia, ma sono convinta che la nonviolenza non sia da vivere solo in situazioni particolari, ma debba diventare impegno nel quotidiano, come una vera e propria forma di vita, come dicono qui in Colombia le persone che accompagniamo: “Abbiamo scelto e scegliamo ogni giorno questo cammino”. E lo hanno scelto in un contesto molto difficile, di guerra civile, di massacri, di violazioni, di persone fatte sparire… Camminando con loro mi sono allenata a vivere la nonviolenza. La pace è un cammino in salita; e in Colombia ne facciamo di salite nella selva! Accompagnare in maniera non violenta vuol dire, concretamente, decidere di mettere il proprio corpo a fianco di coloro che rischiano la vita tutti i giorni nel portare avanti la scelta di dire “no” alla violenza. Vuol dire “offrirsi” perché si crede nell’amore verso tutte le forme di vita: la vita umana e la vita del mondo, del contesto del pianeta che ci circonda.

C’è un accompagnamento fisico, ma ancor più un accompagnamento spirituale, che viene soprattutto da parte loro nei confronti nostri. I veri maestri della non violenza sono proprio queste persone che hanno scelto di non lasciarsi coinvolgere nel conflitto. Noi siamo chiamati a sostenerli. Stando al loro fianco, ritengo di trovarmi da una parte molto privilegiata del mondo. A volte c’è, sì, la paura, ma la si può vincere grazie al grande amore per questa lotta che, in Colombia va avanti da oltre 25 anni».

Alla domanda se ci sia, a volte, la tentazione di reagire in modo violento alle provocazioni di queste bande armate, Silvia risponde raccontando di essere stata testimone diretta, nel 2017, di un attentato da parte di gruppi armati contro un membro della Comunità di pace. «Non abbiamo fatto in tempo ad interporci – dice – erano già state prese due persone, che poi fortunatamente sono uscite illese. Nonostante ciò non ho mai sentito da parte della persona che ha rischiato di essere assassinata, una parola di odio. È un’esperienza che porterò con me ogni giorno e che mi è di aiuto nei momenti di difficoltà. Anche donne, alle quali sono stati ammazzati i figli e le figlie, ripetono che bisogna cercare di trasformare il tanto dolore in speranza. Una frase complicatissima da spiegare, da capire… A me ci sono voluti molti anni, continuando a chiedere: “Ma cosa vuol dire trasformare il dolore in speranza?”, e soprattutto, poi, “Come avete fatto, e come fate a trasformare un dolore così grande, di figli fatti a pezzi, in speranza?” E quando chiedi loro cos’è la speranza, ti rispondono che è “vivere, oggi, qui dove si è; vivere in comunità la pace, anche sapendo che domani potremmo essere uccisi”. C’è la consapevolezza che questa lotta ha come “vittoria” la morte… Tutto questo non si improvvisa; ci vuole un grande allenamento».

Alla domanda su quale legame ci sia tra le scelte radicali di chi è in missione e noi che ci troviamo dall’altra parte del mondo, Silvia risponde: «Un nostro caro amico dice che “Tutto è interconnesso!”. Se i continenti sono lontani e c’è un oceano che ci separa, è anche vero che quanto accade qui in Colombia non è assolutamente scollegato dal nostro quotidiano in Europa, in Italia. Per me è sempre una sfida e uno stimolo il ritorno nel mio paese, perché proprio il mio ritornare portando quello che vivo qui, è ciò che mette in collegamento questi due mondi. Incontro molti giovani nelle scuole e loro mi chiedono: “Ma cosa posso fare?” E me lo chiedono spesso! Secondo me siamo molto in ritardo nel dar loro risposte, facendo entrare questi temi nella scuola, ma non come un laboratorio staccato dalla quotidianità. Senza un allenamento nel quotidiano non si può imparare a vivere la nonviolenza, che non è semplicemente un rifiuto della violenza… La nonviolenza è attiva, concreta, pratica, è cammino, fatica e sudore, è rinuncia e sofferenza, però è anche tanta gioia interiore, tanta forza che ci si dà l’uno con l’altro cercando di camminare insieme».

Silvia De Munari

(da “Scelte di confine”,  https://youtu.be/3OFhfVl51VQ)